risarcimento del danno da molestie sessuali a donne nelle forze armate

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 Un graduato di sesso femminile è stato oggetto di molestie sessuali in caserma.
La circostanza rappresentata in via informale ai propri superiori e, però, stata sottaciuta dalla gerarchia, costringendo quindi il militare a rinunciare alla rafferma, dovendo in caso di accoglimento di quest’ultima, prestare il proprio servizio nella caserma ” incriminata”.
 
Rivoltasi all’avvocato militare il graduato intende convenire in giudizio l’amministrazione per condotta discriminatoria.
I presupposti nel caso in esame sussistono venendo certamente in rilievo una responsabilità civile del datore di lavoro pubblico e della Forza Armata quanto meno, ai sensi dell’art. 2087 c.c.
 Nella normativa nazionale la definizione di molestie sessuali sul lavoro è contenuta nel d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, c.d. “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, che ha raccolto ed unificato quasi tutte le disposizioni normative in materia di promozione delle pari opportunità e di prevenzione e contrasto delle discriminazioni per motivi sessuali.
L’art. 26, comma 2, del Codice identifica espressamente le molestie sessuali come discriminazioni, costituite da “ quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo .
Esaminando la nozione di “molestie sessuali” inserita nella disposizione in esame, emergono due elementi soggettivi, attinenti alla sfera psicologica, della vittima e del molestatore.
Il primo elemento soggettivo è costituito dalla “indesideratezza” che deve connotare il comportamento del molestatore. In dottrina si è ritenuto che per configurarsi un’ipotesi di molestia sessuale sia necessaria la sussistenza di una ingiustificata afflizione dovuta ad una intrusione esterna, non consensuale e sgradita, nella propria sfera di identità personale: non vengono così repressi o condizionati gli istinti, le pulsioni, il contegno o i modi di essere o di fare che siano reciproci o, comunque, graditi, accettati o al massimo tollerati dal destinatario, ma solo quelli che risultino offensivi, sgraditi, sconvenienti per la vittima che li patisce come umiliazioni personali e lesioni alla propria dignità, e che la vittima è costretta a sopportare senza avere “vie d’uscita.
Naturalmente, l’elemento della “indesideratezza” deve, poi, accompagnarsi all’idoneità oggettiva della condotta a ledere il bene della dignità della persona.
Il secondo elemento soggettivo è quello riferito all’autore della condotta: il comportamento indesiderato costituisce molestia quando ha lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona a motivo di uno dei fattori di rischio.
Tale secondo elemento – riferito all’intenzionalità della condotta molesta – si esprime nella lesione della dignità causata dal comportamento voluto. In altri termini, ciò che rileva ai fini dell’integrazione della fattispecie è, quindi, l’oggettiva “connotazione sessuale” del comportamento, che può configurarsi anche quando non sia ravvisabile un’intenzionalità dell’autore, purché la condotta risulti indesiderata e produca un effetto lesivo.
La connotazione di discriminazione è estesa anche agli atti adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione a molestie sessuali e agli atti ritorsivi posti in essere dal datore di lavoro in pregiudizio di chi abbia agito, in particolar modo per via giudiziaria, a garanzia della parità di trattamento tra uomini e donne.
Una delle questioni più delicate in materia di molestie sessuali è rappresentata dall’accertamento delle condotte illecite nella dimensione oggettiva.
Il legislatore nazionale, in linea con la disciplina comunitaria, attribuisce a chi si proclama vittima di discriminazioni un regime probatorio agevolato, che dovrà quindi applicarsi anche ai casi di molestie sessuali, stante l’equiparazione di queste ultime alle discriminazioni.
In particolare, l’art. 40 del Codice delle pari opportunità stabilisce che: “ Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione ”.
Tale disposizione richiama la prova per presunzioni che consente di accertare il fatto principale deducendolo da fatti secondari entrati nel processo, come conseguenza normale secondo un criterio di normalità; tale previsione è particolarmente importante se si considerano le difficoltà che incontra la lavoratrice (o il lavoratore) che intenda agire in giudizio per l’accertamento della condotta molesta, difficoltà dovute in particolare alla circostanza che le molestie sessuali raramente si verificano in pubblico nonché al contegno omertoso dei colleghi, intimoriti dalle possibili ritorsioni che il datore di lavoro potrebbe mettere in atto nei loro confronti.
La disposizione ha trovato ampia applicazione nelle pronunce di merito e di legittimità: talvolta i giudici hanno tratto la prova delle molestie dalle dichiarazioni della lavoratrice stessa e dalle deposizioni di colleghe che sostenevano di avere subito lo stesso trattamento lamentato dalla ricorrente, valutate come univocamente significative della veridicità della denuncia; talaltra, la prova è stata tratta da deposizioni testimoniali, anchede relato, dai racconti della ricorrente e dal peggioramento del suo umore (la circostanza per cui spesso la lavoratrice piangeva sul luogo di lavoro, in particolare, è stata valorizzata quale elemento presuntivo a conferma delle condotte denunciate).
Nel caso di specie il problema, semmai, è quello della quantificazione del danno trattandosi per alcuno di danno da liquidarsi in via equitativa ( come una sorta di sanzione civile a carico della P.a.) e per altri, di voce di danno in senso proprio da provarsi rigorosamente e liquidarsi secondo i criteri giurisprudenziali in materia di danno non patrimoniale.