Interessante pronunciamento in materia di causa di servizio e equo indennizzo: in sostanza – e riassumendo – i giudici amministrativi riconoscono l’equo indennizzo ( quale causa di servizio) solo nel caso la patologia sia ascrivibile ad uno sforzo lavorativo che esuli dall’ordinario.
E la prova – non semplice – compete al militare che agisca per il beneficio.
Queste le cadenza della sentenza del Tar Puglia.
“Sul punto vanno anche richiamati costanti principi giurisprudenziali in forza dei quali il rapporto di eventuale derivazione causale non può essere genericamente verificato – come ex adverso pretenderebbe il ricorrente – con riferimento all’ordinaria attività di servizio (per quanto gravosa e piena di disagi, compatibile con l’attività prestata da soggetti aventi lo status di militare, per i quali l’ordinamento prevede una specifica serie di tutele per la gravosità del servizio prestato), dovendosi appurare l’effettiva incidenza di particolari modalità, ulteriori e speciali rispetto al normale espletamento del servizio, che valgono a connettere le patologie insorte con dette modalità (cfr. ex multis C.d.S Sez. III, numero affare 03837/2010 – ad. del 16 marzo 2011).
Infatti, un’attività di servizio, sia pure impegnativa, non può comunque essere considerata ex se anche solo concausa dell’evento dismetabolico, ove questo non sia già ricompreso tra le malattie professionali tabellate, per le quali operano presunzioni legali di derivazione dall’attività lavorativa, essendo all‘uopo necessario l’emersione, nel caso concreto, di quel surplus di fattori rispetto al fisiologico dispiegarsi del servizio richiesto ai militari costituenti rischio specifico dell’evento morboso (cfr. in termini Consiglio di Stato, sez. IV, 18 settembre 2012, n. 4950; sez. VI, 22 gennaio 2007, n. 126).
In particolare, si è precisato che “ai fini del riconoscimento della “causa di servizio” in relazione all’equo indennizzo, occorre che l’attività lavorativa possa, con certezza, ritenersi, non solo causa concomitante con altri fattori, ma che sia essa stessa concausa efficiente e determinante dell’infermità con la conseguenza che, ove fosse mancata, l’evento non si sarebbe verificato. La giurisprudenza ha pertanto stabilito che grava sul lavoratore l’onere di provare – secondo i principi generali – la dipendenza della malattia da specifici e concreti fatti di servizio, non operando nella fattispecie presunzioni di derivazione dall’attività lavorativa, come nel caso di malattie professionali tabellate (Cass. SS.UU., 17 giugno 2004 n. 11353). Il principio è stato di recente ribadito da Cass. n. 21825 del 15 ottobre 2014 nei termini che seguono ” … ove la patologia presenti un’eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio (Sez. U, Sentenza n. 11353 del 17/06/2004, Sez. L, Sentenza n. 15080 del 26/06/2009 (Cass. Sez. L, Sentenza n. 16778 del 17/07/2009)” (Tar Bari n. 957 del 12 settembre 2017).