Un militare condannato per reati di abuso di autorità in caserma ( nella specie di violenze contro i commilitoni sostanziatesi in umiliazioni e vessazioni fisiche e morali e talora sessuali) viene tratto a giudizio dalla Procura presso la Corte dei Conti che richiede, anche per l’eco avuta dalla vicenda sugli organi di stampa, il risarcimento del ” danno all’immagine”.
Recatosi dall’avvocato militare, l’interessato intenede avere contezza della fondatezza della pretesa azionata dal magistrato contabile.
Come noto, in materia era già pesantemente intervenuto il Legislatore nel 2009 dettando una norma, contenuta nell’art. 17, comma 30-ter, del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, assai limitativa del novero di illeciti suscettibili di dare luogo all’azione di responsabilità amministrativa per il risarcimento del danno all’immagine. In particolare, stabilendo che le «procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», la possibilità di contestare il danno all’immagine era stata circoscritta ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, di cui al capo I del titolo II del libro secondo del codice penale.
Benché inizialmente osteggiata da una parte della magistratura contabile, incline a riconoscere la sussistenza del danno all’immagine anche in conseguenza di reati diversi da quelli poc’anzi ricordati, tale norma ha infine ottenuto l’imprimatur della Corte costituzionale, la quale, nel respingere plurime questioni di legittimità costituzionali, ha affermato che il «legislatore, nell’esercizio non manifestamente irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che tale tutela sia adeguatamente assicurata mediante il riconoscimento del risarcimento del danno soltanto in presenza di condotte che integrino gli estremi di fatti di reato che tendono proprio a tutelare, tra l’altro, il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa. In altri termini, il legislatore ha inteso riconoscere la tutela risarcitoria nei casi in cui il dipendente pubblico ponga in essere condotte che, incidendo negativamente sulle stesse regole, di rilevanza costituzionale, di funzionamento dell’attività amministrativa, sono suscettibili di recare un vulnus all’immagine dell’amministrazione, intesa, come già sottolineato, quale percezione esterna che i consociati hanno del modello di azione pubblica sopra descritto».
Di conseguenza, dinanzi a un tale inequivoco indirizzo del Giudice delle leggi, la prevalente giurisprudenza contabile si è quasi immediatamente rassegnata ad un’interpretazione riduttiva della norma, ritenendo effettivamente non percorribili strade diverse, che consentissero la contestazione del danno all’immagine anche a fronte di reati diversi da quelli indicati dal legislatore. Va segnalato, tuttavia, come alcune Sezioni giurisdizionali abbiano cercato e cerchino tuttora di aprire il varco ad opzioni ermeneutiche diverse, che facciano salva la possibilità di ricollegare la sussistenza del danno all’immagine anche alla commissione di delitti diversi da quelli previsti dalla novella del 2009.
In questo quadro composito, e parzialmente ancora in movimento, si inserisce adesso la novità rappresentata dall’art. 1, comma 1-sexies, secondo cui «Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente».
Tale norma, per come è formulata, si presta a diverse interpretazioni, sia nel senso di consentire al giudice di trovare una conferma all’indirizzo restrittivo testé citato, sia nel senso di avallare addirittura un orientamento ancora più restrittivo, sia, al contrario, nel senso di ricavare da essa elementi a conforto della tesi più evolutiva della giurisprudenza contabile.
Innanzitutto la norma, nel richiamarsi al «danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione», sembra implicitamente richiamarsi alla disciplina restrittiva introdotta dal citato art. 17, comma 30-ter, circoscrivendo espressamente il suo campo di applicazione ai soli delitti contenuti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale.
Inoltre, l’ulteriore inciso secondo cui «l’entità del danno all’immagine […] si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente» potrebbe addirittura indurre qualche interprete a ritenere che il legislatore abbia inteso circoscrivere ulteriormente la tipologia di illeciti da cui può scaturire un danno all’immagine, fissando il principio che solo laddove il dipendente abbia illecitamente “percepito” una somma di danaro o altra utilità sia possibile ipotizzare la sussistenza di un danno all’immagine della pubblica amministrazione. Secondo questa interpretazione la clausola di salvezza “salva prova contraria” si limiterebbe ad offrire al giudice di operare la quantificazione del danno in modo diverso da quello indicato dalla norma, ma non inciderebbe affatto sulla qualità degli illeciti idonei a causare il danno all’immagine.